“Milano odia: la polizia non può sparare” (1974)


Il toscano Umberto Lenzi fu uno dei registi italiani che si cimentarono con più successo nel genere poliziottesco; ha infatti realizzato alcuni dei film meglio riusciti del filone, come Milano rovente (1972), Milano odia: la polizia non può sparare (1973), Roma a mano armata (1976), Napoli violenta (1976), Il cinico, l’infame, il violento (1977). In particolare Milano odia: la polizia non può sparare (Almost Human nella versione straniera) contribuì non poco a fissare alcuni dei dettami del genere; inoltre il leggendario protagonista Giulio Sacchi (interpretato da Tomas Milian), così violento da risultare comico, si è imposto prepotentemente come una delle figure cardine del filone poliziottesco anni settanta.


Trama:

Giulio Sacchi (Tomas Milian) è un malvivente milanese, considerato dai suoi “colleghi” di malavita maldestro e cagasotto. Nella prima scena del film manda a monte una rapina perdendo i nervi davanti ad un vigile che gli vuole appioppare una multa, freddandolo con un colpo di pistola. Nella seconda scena lo vediamo scassinare un distributore di sigarette per rubarne l’incasso e uccidere un metronotte che lo aveva colto in flagrante. Stufo di passare la vita tra un furtarello e l’altro e di chiedere soldi alla fidanzata Jone (Anita Strindberg), un giorno, chiacchierando al bar con i suoi amici Carmine (Ray Lovelock) e Vittorio (Gino Santercole) decide di sequestrare la figlia di un ricco imprenditore per chiedere un riscatto di 500 milioni.

Per questo i tre rubano dei mitra ad un ricettatore di armi (che poi uccidono insieme alla moglie) e seguono, dopo aver rubato l’auto di Jone, Marilù (Laura Belli), figlia del facoltoso commendator Porrini (Guido Alberti). La sorprendono in un bosco ad amoreggiare in macchina con il fidanzato Gianni (Lorenzo Piani); quando la coppia viene aggredita da Sacchi e soci, Gianni cerca di reagire e viene ucciso da Carmine a colpi di mitra. Nel frattempo però Marilù fugge e trova ospitalità in una villa poco lontana, dove viene accolta da una tipica famiglia borghese milanese; ma la banda di malviventi la scova e, dopo aver ucciso a mitragliate tutti gli abitanti della casa, rapisce Marilù e si barrica con Carmine, Vittorio e la ragazza in un barcone abbandonato sul fiume.

Intanto il commissario Grandi (Henry Silva) visita tutti i luoghi dei delitti e capisce di avere a che fare con uno psicopatico; improvvisamente gli viene in mente di aver già visto Sacchi, tra la folla di curiosi, in occasione dell’omicidio del metronotte. Quando anche Jone muore, fatta precipitare nel lago all’interno della sua auto da Sacchi stesso (il quale le aveva svelato i suoi piani criminali), Grandi si convince che tutti i delitti portano la firma di Sacchi, quindi lo tiene d’occhio. Ma Sacchi riesce ad ottenere un alibi per la notte del rapimento grazie a Ugo Maione (Luciano Catenacci), una sua vecchia conoscenza malavitosa.

Il commendator Porrino, ignorando le raccomandazioni della polizia, acconsente al versamento della cifra prestabilita per il riscatto: deposita così i soldi nel posto pattuito con i rapitori, ma non vedrà mai sua figlia. Questa infatti, non appena il riscatto è stato pagato, viene freddata da Sacchi. Carmine accorre troppo tardi e aggredisce Sacchi, che non ci pensa due volte e lo uccide. Anche Vittorio, ribellandosi per l’uccisione di Carmine, viene ucciso da un Sacchi ormai fuori di senno. Passa qualche tempo e Sacchi è ormai convinto di averla fatta franca. Ma un pomeriggio che sta bevendo dello champagne al bar con degli amici viene raggiunto da Grandi che lo fredda implacabilmente. Le ultime parole che Sacchi riesce a dire sono (rivolte a Grandi) “Lei è un poliziotto! La polizia non può sparare!” quindi tra le lacrime supplica inutilmente il commissario per poi morire in mezzo ad un cumulo di rifiuti.


Commento:

Milano odia: la polizia non può sparare presenta caratteri ben definiti che lo fanno entrare di diritto nel novero dei poliziotteschi all’italiana, anche se il film resta anche per larghi tratti attaccato al genere poliziesco classico. Innanzitutto salta subito all’occhio la scena iniziale dell’inseguimento, la figura del commissario inespressivo e tutto di un pezzo che, disilluso di fronte all’inefficienza del sistema giudiziario italiano, decide alla fine di farsi giustizia da solo, la figura opposta dell’anti-eroe Giulio Sacchi, così entusiasta della parte che gli fu affidata da abusare di alcolici e stupefacenti durante il periodo di riprese del film per entrare meglio nel personaggio. Milano odia: la polizia non può sparare presenta un’elevatissima dote di violenza, spesso gratuita; tuttavia le scene degli efferati delitti non sono mostrate con la serietà che si riscontrerebbe in un noir classico: esse appaiono bensì stemperate da una palese vena di comicità grottesca, e il personaggio stesso di Sacchi appare così violento nei suoi crimini da apparire come un anti-eroe trash-comico.

Milano odia: la polizia non può sparare presenta molti echi della situazione italiana degli anni settanta, in cui – a causa del terrorismo, della microcriminalità elevatissima e delle leggi forse troppo garantiste (lo stesso Sacchi nel film sentenzia: “Ci vogliono prove grandi come il grattacielo della Pirelli per mandare uno all’ergastolo“) – le forze dell’ordine si sentivano spesso impotenti di fronte alla ferocia dei criminali con cui avevano a che fare. Giulio Sacchi però è un criminale atipico: è spregiudicato e nichilista ma non ha sicurezza nei proprio mezzi, anzi appare maldestro e si mostra spavaldo solo quando è certo di avere le spalle ben coperte. Fondamentalmente la sua scalata nel mondo della malavita funge soprattutto al suo ego, insicuro e annichilito dai giudizi altrui (emblematica in cui uccide Marilù citando chi un tempo lo chiamò “cagasotto“). Al suo fianco ci sono malviventi di tutti i tipi: Carmine è un po’ la sua nemesi positiva, Vittorio un mero sottoposto, Maione un boss che antepone l’onore a tutto.

Dall’altra parte c’è il Grandi, commissario tutto di un pezzo che, fedelmente alla tradizione americana, si fa in quattro per far vincere la giustizia e si getta all’inseguimento del probabile assassino anche con una scarica di proiettili nella gamba. E quando colui che troppo ama la giustizia capisce che non c’è altro modo per ottenerla se non usando gli stessi sporchi mezzi degli antagonisti, lui stesso finisce per mettersi allo stesso piano del criminale per decretarne la sconfitta (come anche il giudice Bonifazi nel film di Dino Risi In nome del popolo italiano, 1971); ciò potrebbe essere letto sotto un’accezione nichilista, ma d’altra parte lo spettatore – nonostante abbia ormai simpatizzato con l’eccentrico criminale Giulio Sacchi – non potrà che trovare la quadratura del cerchio nel momento in cui, a conclusione del film, Sacchi morirà in lacrime in mezzo ad un cumulo di rifiuti.

Il film appassiona per tutta la sua durata, oltre che per la dettagliata caratterizzazione dei personaggi da parte di Lenzi, anche per la sceneggiatura scritta da Ernesto Gastaldi, che fonda ampiamente i suoi dialoghi su battute in dialetto milanese e su aforismi di bassa lega (leggendari soprattutto quelli di Sacchi, come è ovvio). La colonna sonora è una delle migliori (la migliore?) del genere, ad opera del maestro Ennio Morricone. Milano odia: la polizia non può sparare è uno dei film italiani di genere che ha segnato il suo filone e che ha fatto la storia: una vera e propria pietra miliare, al pari di Profondo Rosso per il thriller-horror e di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto per il political-thriller.


Video:

Trailer del film.


Valutazione: 8.7

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