“Il Giardino delle Delizie” (1967)


Con il suo primo lungometraggio Il Giardino delle Delizie (conosciuto all’estero come Garden of Delights) il regista bresciano Silvano Agosti fece subito centro: realizzò un film maturo, fortemente influenzato da Bergman e dalla nouvelle vague francese, mantenendo comunque uno stile personale, non di mero richiamo delle grandi influenze a cui la sua idea di cinema si appellava. Lo stesso Bergman, il maestro, incoraggiò Agosti, l’allievo, a continuare a produrre film quando quest’ultimo era ormai quasi deciso a smettere, a causa della barbara censura italiana (o meglio, del Vaticano) che era stata applicata alla sua opera prima (quasi 20 minuti di scene tagliate).

Quello che il Vaticano non aveva capito, era che non era sufficiente tagliare qualche scena da un film del genere per cancellare il messaggio che Agosti intendeva dare; evidentemente non aveva compreso l’incredibile forza del film nel trasmettere l’idea del regista, un’idea di fallimento completo della morale cattolica e dell’insegnamento dei valori borghesi nell’educazione di un bambino a metà del Novecento. Il Giardino delle Delizie, nonostante la censura, contiene ancora scene fortemente anti-clericali, come quella del protagonista da bambino che, notando che il prete si è addormentato durante la confessione, gode nel confessargli i peccati più scabrosi; oppure la finta eucarestia (precedentemente rubata in chiesa) che il protagonista, sempre da bambino, somministra alla sorellina in una cantina buia e maleodorante, davanti ad una bambola crocifissa a sostituire Cristo (una scena analoga si vedrà qualche anno dopo in Mais ne nous délivrez pas du mal, di Seria).

Il Giardino delle Delizie prende il nome dal famoso quadro di Hieronymus Bosch, nel quale vengono illustrate tutte le disgrazie ed i patimenti dell’uomo. Il protagonista Carlo (Maurice Ronet – già star decadente della nouvelle vague in Le Feu Folle di Luis Malle del 1963), durante la sua prima notte di nozze con la novella sposa Carla (Ida Galli) medita sul dipinto sopracitato di Bosch. Concentrandosi in particolar modo su tre scene significative (Il sogno di Adamo, il peccato originale, la cacciata dall’Eden) Carlo evoca i ricordi della sua vita e si pone domande esistenziali sul suo matrimonio, domande che lo conducono inevitabilmente alla distruzione progressiva del suo ordine di idee.

Carlo non crede nel matrimonio, che vede come una cerimonia priva di senso: esso è stato fortemente voluto dai genitori e dalla sposa Carla, rimasta incinta accidentalmente. Inoltre non prova desiderio sessuale nei confronti della sua sposa: la sua gelida e perfetta bellezza gli provoca anzi repulsione, eccezion fatta nei casi in cui vede tale bellezza come suscitatrice di pensieri in contrasto con la morale comune (a Carlo viene improvvisamente una pulsione sessuale non appena si accorge che un ragazzino sta spiando le gambe della moglie da sotto il tavolo di un caffé). Ma per il resto delle volte Carla è quasi un essere inanimato per Carlo, un bellissimo quadro che però non gli suscita alcuna sensazione, come si capisce dalla scena in cui egli la guarda attraverso il buco della serratura della porta del bagno pur avendola a sua completa disposizione per tutta la notte.

Dal momento in cui Carla si addormenta dopo un malore, probabilmente causato dall’incedere della gravidanza, la notte diventa per Carlo un incubo interminabile, durante il quale egli vaga come un fantasma nella camera d’albergo, senza una meta né uno scopo; la sua occupazione principale sembra essere riparare il guasto allo scarico della toilette, che con i suoi gorgheggi gli impedisce di prendere sonno. Ronet è perfetto nel ruolo assegnatogli da Agosti: c’è qualcosa in lui, nel suo sguardo apatico e alienato, nei suoi movimenti svogliati, nella sua bellezza disfatta, che ricalca pari pari lo stereotipo dell’anti-eroe esistenzialista, tant’è che non stonerebbe affatto come protagonista di un romanzo di Sartre. La prova definitiva di ciò si può avere facilmente guardando la sua prova in Le Feu Follet.

Carlo trova un sollievo solo quando si sta già facendo mattina: insonne, esce dalla camera per fare due passi nel corridoio (un ambiente che ricorda da vicino l’hotel che Bergman scelse per Il Silenzio, con i suoi corridoi bianchi e i mobili art noveau) ed incrocia lo sguardo annoiato di una donna, che dorme nella camera di fronte alla sua. Introducendosi come un ladro nella sua stanza, la possiede senza dire una sola parola (Il Peccato Originale nella tavola di Bosch), mentre nella sua stanza la moglie Carla giace distesa sul letto come un corpo morto, silente ed immobile; sembra che durante la notte quella che doveva essere per Carlo e Carla la camera incantata della loro prima notte di nozze si trasformi invece nella camera ardente di una veglia funebre che riguarda entrambi (Carla per quanto riguarda il fisico, Carlo per quanto riguarda la mente).

Nel frattempo, nell’arco della notte, la mente di Carlo viene assalita dalle reminescenze della sua infanzia. Si ricorda innanzitutto i dettami dell’educazione catto-borghese che i suoi genitori gli hanno inflitto (lui stesso dice di essere stato “addestrato alla vita come si insegnano i cani a camminare”), i litigi in famiglia, le ipocrisie e le bugie dell’ambiente familiare, le ore passate a spiare i genitori in camera da letto con addosso un’inquietante maschera di Carnevale (un’anticipazione delle maschere che poi sarebbe stato costretto a portare anche da adulto?).

Gli vengono poi alla mente gli anni del collegio: le sberle ricevute dai preti ogni volta che si sottoponeva alla confessione, le molestie subite dai docenti. Agosti dispiega così una spietata critica della società catto-borghese di metà Novecento, mettendo in luce i mostri che fa nascere, alleva e cresce un sistema di valori ipocriti e ingiustificatamente rigidi come quelli della borghesia coadiuvati con l’educazione cattolica, che viene vista dal regista come strumento di repressione delle giovani menti. Si capisce facilmente che Il Giardino delle Delizie assume un forte rilievo anti-clericale e rivoluzionario nonostante la barbara censura applicata dal Vaticano.

Inevitabilmente, queste riflessioni esistenziali portano Carlo a meditare anche sul matrimonio con Carla; in un lucido sogno (o meglio incubo) ad occhi aperti, egli lo interpreta come l’ennesima imposizione dall’alto, da parte di un sistema che fin dalla nascita lo opprime, al punto che gli appare quasi come un rito di magia nera, con le fedi nuziali (simbolo del vincolo del sacramento cristiano) che diventano anelli incandescenti che marchiano per l’eternità le dita dei due sposi (tanto è vero che successivamente, quando in preda ad un raptus cercherà di possedere Carla, prima di spogliarla e di avventarvisi contro sfilerà la fede dall’anulare della moglie e la getterà a terra con rabbia).

Ultimo tassello dell’incubo di Carlo non può che essere la morte della moglie, abbandonata al suo destino nella sua alcova funebre, a fissare una siringa colma di un medicinale che stava preparando per lei il marito frantumarsi poco a poco fino ad esplodere, curiosamente proprio nell’attimo in cui ella spira definitivamente. Lui, Carlo, rientrando frettolosamente dopo un secondo amplesso con il corpo estraneo della donna della camera di fronte (si noti che anche l’atto sessuale sembra più una lotta, a sottolineare ancora una volta l’irrimediabile situazione di insoddisfazione della persona umana ne Il Giardino dell Delizie), manterrà per il resto della vita l’immagine del suo sguardo terrificante, a metà tra il rimprovero e la richiesta d’aiuto, che riempie gli ultimi secondi della pellicola rimanendo così indelebile anche negli occhi dello spettatore.

Tutto nel film è curato nei minimi dettagli. Oltre ai due attori principali, perfetti nel loro ruolo, anche gli attori secondari si distinguono per le loro interpretazioni. Si noti come Agosti diriga i suoi personaggi da farli trasparire tutti quanti malati del “mal di vivere” che angustia in primis Carlo e Carla: vuoi per la palese affettazione dei comportamenti di alcuni (il proprietario dell’hotel, i camerieri, il receptionist – d’altra parte come il receptionist del già nominato Il Silenzio di Bergman), vuoi per l’approccio perennemente insoddisfatto e arrendevole all’esistenza di altri (la donna senza nome che si fa prendere due volte da Carlo senza dire una sola parola), vuoi per la cieca inconsapevolezza della tragicità di un futuro già segnato (Carlo da bambino). Tutti quanti sembrano afflitti da quella che Alberto Moravia in un suo noto romanzo ribattezzò “Noia”.

Uno degli elementi migliori del film è la fotografia in bianco e nero che appare elegante, sublime, addirittura magistrale, debitrice dei lavori di Bergman e della nouvelle vague francese (Godard su tutti); sembra essere presa pari pari dai lavori del maestro, con i suoi bianchi infiniti ed i suoi sporadici neri densi di peccato e dannazione. Per finire, anche la colonna sonora di Ennio Morricone si adatta perfettamente al tipo di film, trasportando lo spettatore ora sulle corde dell’angoscia esistenziale e dell’alienazione del protagonista, ora sottolineando l’inconsistenza e l’irrealtà delle cose che lo circondano.

Video:

Una scena del film.

Valutazione: 8.9

2 commenti

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2 risposte a ““Il Giardino delle Delizie” (1967)

  1. ho visto da pochissimo il film, la tua recensione è bellissima, il film è lì.

    grazie

  2. come posso comprare la versione integrale 95 minuti. grazie

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